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Fuochi d’artificio *

Maurizio Del Ninno

 


 

Due titoli mi permisero di arrivare, giovane “contrattista”, presso l’insegnamento di Storia delle tradizioni popolari della Facoltà di Magistero di Siena, allora tenuto da Carla Bianco: la mia formazione semiotico-lévistraussiana e un breve saggio sulla festa dei Ceri di Gubbio (1976). Per questo, in omaggio a chi allora mi accolse con calore, vorrei presentare un breve progetto di studio che per più versi conserva molte tracce del passato e si ricollega ai molti intensi dibattiti che determinarono il convegno di Montecatini.[1]

In questione sono il carnevale di Offida e il Cavallo di fuoco di Ripatransone,[2] due piccoli paesi limitrofi in provincia d’Ascoli Piceno, un “terreno” forse più vicino di quanto non si pensi a Gubbio; i due eventi offrono anche lo spunto per sviluppare un suggerimento lévistraussiano. Ad essi sono arrivato, infatti, cercando possibili esempi di rapporti tra “riti e miti di popoli vicini”. Il riferimento è qui ad un noto saggio scritto da Lévi-Strauss per Evans-Pritchard (1971), poi pubblicato in Antropologia strutturale due (1973, trad, it. pp. 267-294). Se il Propp delle Feste agrarie russe (1963) e il Dumézil di Feste romane (1975) mettono in evidenza la necessità di articolare l’analisi degli eventi festivi lungo l’asse del ciclo dell’anno (reticolo annuale), lo scritto di Lévi-Strauss sottolinea che anche un’altra serie di relazioni entra nel gioco sistematico: quello dei rapporti tra le comunità.[3]

L’obiettivo della ricerca che vorrei delineare è dunque quello di incastrare in una rete di relazioni i due eventi. A richiamare inizialmente la mia attenzione sulle celebrazioni in questione è stata soprattutto la loro collocazione temporale; esse, infatti, sono poste agli estremi del periodo quaresimale (venerdì e martedì grasso da una parte e ottava di Pasqua dall’altra) e lasciano dunque prevedere un percorso unitario.

 

Offida

Accanto ad attività ‘diffuse’ (i veglioni, le sfilate delle congreghe, le tappe) e all’uscita delle maschere il martedì, il carnevale di questa cittadina è articolato su due poli molto peculiari: lu bov fint del venerdì grasso e i vlurd, dell’ultimo giorno.

Lu bov fint mette in scena la caccia ad un “bove” finto (un’armatura d’alluminio, rivestita in stoffa, ma con estremità vere, corna e coda, portata sulle spalle da un uomo che rimane seminascosto). L’animale è inseguito da una folla di giovani e, come impazzito, carica ora i persecutori, ora il pubblico. Il gioco ha toni realistici per il meccanismo di trasporto: il portatore corre senza vedere pressoché nulla, guidato da un compagno all’esterno che però non è in grado di controllare perfettamente il movimento e colui che all’improvviso si trovi “caricato”, non è dunque per niente sicuro della propria incolumità fisica. Travaglini (1997, p. 28) segnala un breve resoconto del secolo scorso, tratto da una rivista locale, che riportiamo:

 

Venerdì 10. C’era una volta la caccia al toro. Figuratevi una testa di toro di carta pesta, due corna appiccicate sopra, per groppone un coperchio di un baule e, sotto, un uomo che fingeva di ruggire. Quattro o cinque persone, con la camicia di fuori, con un fazzoletto rosso al collo, rappresentavano i torreadores (Ophis, 1893).

 

Attualmente la manifestazione, per una cui prima descrizione più dettagliata rinviamo al citato Travaglini e a Carosi (1991: 50-59 e 73-76), dura dal primo pomeriggio, quando il bove esce da una casa in periferia (borgo dei Cappuccini), fino al tramonto quando, tra la pressione della folla, è infine “mattato”. L’uccisione è attuata costringendo lu bov a toccare con le corna una colonna dei portici del Palazzo comunale, contrassegnata da un anello di ferro.[4] E’ opinione ricorrente ad Offida che l’attuale celebrazione sia il ricordo di una vera uccisione del bove, avvenuta almeno fino agli inizi dell'Ottocento..[5]

Dopo tre veglioni, che occupano le notti di sabato, domenica e lunedì, arriviamo ai vlurd (o velurde, secondo una trascrizione pure ricorrente), che costituiscono la cerimonia conclusiva del carnevale. In senso stretto, il nome indica dei fasci di canne, riempiti di paglia, lunghi anche cinque metri, dal diametro di 20-50 cm. La sera del martedì grasso, al tramonto, questi fasci di canne sono portati accesi in spalla, in genere da un solo portatore, in un clima di grande suggestione lungo le vie cittadine per essere infine gettati in un rogo in Piazza del Popolo. Lo spegnimento del fuoco segna anche la fine del Carnevale.

Anche qui, per una più dettagliata descrizione, rimandiamo a Travaglini e a Carosi. Ecco intanto quella, breve, che con ottocenteschi toni letterari ne dà Guglielmo Allevi (1901, in 1997, p. 346):[6]

Le tenebre sono discese sulla città. E’ l’ora del rito […]. Gl’incamiciati che avevano lasciato per pochi istanti la piazza, ora vi ritornano; sboccando da tutte le strade che vi vanno a mettere capo, curvi sotto il peso dei bagordi[7] portati a spalla, tra ululi lunghi, paurosi, selvaggi. E la piazza si popola a un tratto di una moltitudine di spettri bianchi, che, fra queste ombre, s’intrecciano, si confondono, s’urtano, si rimescolano affaccendati […]. Una striscia di punti luminosi, i soliti moccoli di carnevale, tra un brulichio confuso di forme umane, si distende, come un volo di lucciole, sotto le severe arcate del palazzo municipale […]. Ma una fiamma guizza, poi due, poi dieci, poi cento, e tutta la piazza si converte, come per incanto, nel girone dantesco, ove le anime dei peccatori sono punite entro camice di fuoco[…]. La folla degli incappucciati, quasi presa da sacro furore, urlando, si caccia giù di corsa per la via del Serpente Aureo: e in quella lunga e stretta gola, fiancheggiata da alte case, non vedi che una confusione indescrivibile di figure umane, e sopra esse, fra turbini di fumo, un aleggiare di mille fiamme, che si allontano ondeggiando […]. E gli incamiciati tornano, cioncano, ripiglian fiato, si ricacciano per le vie, s’abbattono, s’incrociano, con altri, e tutto è fuoco, fumo, urli, un vero pandemonio.

 

Ripatransone

Come accennato, la celebrazione del “cavallo di fuoco” si colloca all’altra estremità della quaresima, all’ottava di Pasqua, quale momento conclusivo delle celebrazioni per la Madonna di San Giovanni, cui, stando ai documenti, è dedicata (Veccia 1882, Lunerti 1932, Giannetti 1993). Il mito di fondazione, accreditato dai documenti, infatti, narra che al termine delle celebrazioni per l’Incorazione della sacra Immagine, il 10 maggio 1652, “il maestro che lavorò i fuochi, che fu chiamato da Atri, cavalcò un cavallo che era tutto ripieno di fuochi artificiali, con il quale girò più volte la piazza buttando sempre raggi ed altre bizzarrie, composte di bitume e altre simili materie incendiarie. Pareva giusto un Plutone quando sopra un Cavallo di fuoco usci dal monte Vesuvio a rapire la figlia di Cerere”. (Filippo Bruti Liberati -1858- citato in Giannetti 1993: 179). La cosa piacque talmente ai ripani che da allora vollero ripetere ogni anno l’evento. [8]

Attualmente il Cavallo di fuoco ha luogo al termine della processione che prevede la circumambulazione della statua della Madonna di San Giovanni[9] nell’ambito del centro storico. Prima che la statua rientri, tra una fitta folla, un cavallo di legno montato su ruote è trascinato con una certa lentezza, su e giù nello spazio antistante il duomo cittadino. Il corpo del cavallo è coperto di fuochi pirotecnici, che un incaricato accende di continuo, dando luogo a spruzzi di scintille ora dall’una, ora dall’altra parte. Si determina così un comportamento analogo a quella dei persecutori del bove di Offida: il “gioco”, naturalmente anche qui soprattutto dei giovani, è quello di tenersi più vicino possibile al cavallo, ora prevenendo, ora sfidando l’improvvisa pioggia di fuoco determinata dall’accensione degli elementi pirotecnici.

La similitudine con il bove finto è ancora più stretta se risaliamo indietro, quando il cavallo era ancora portato a spalla. Eccone una descrizione degli inizi del secolo:

 

È dunque la sera dell’ottava di Pasqua. La Piazza Ascanio Condivi, già piena di gente uscita allora dalla funzione di chiesa, presenta l’aspetto allegro delle grandi solennità [… ]. Ad un certo momento un uomo, coperti il petto e la faccia di pelli e tela bagnata, recante sul dorso una specie di sellino in legno, si caccia improvvisamente tra la folla e corre curvo dove essa è più densa per femine venute dalla campagna, che mettono alte grida e procurano fuggire e nascondersi. Tutto questo intanto avviene perché da quel sellino, quasi a forma di barca, saltan fuori, scoppiettando allegramente, razzi, fontanoni e piccoli girelli di opera pirotecnica, che sono stati attaccati lì su fili di ferro per lungo e per largo e che a lui, per essere coperto di tela bagnata, non recano certo danno di sorta. E bisogna vedere che fuggi-fuggi avviene fra tutta quella calca di popolo che nondimeno, s’incaponisce ad assistere annualmente a quel divertimento dannoso ed indecente (Mannocchi, 1920: 69).

 

Credo che il quadro presentato sia già sufficiente a giustificare un’ipotesi di lavoro strutturale. In ogni caso, è opportuno aggiungere due dati. Per prima cosa, va sottolineato che l’attuale manifestazione de lu bov, e quella del cavallo di fuoco fino a qualche hanno fa, sono sorrette dallo stesso impianto morfologico, che dobbiamo presupporre molto antico, visto che lo troviamo attestato ne La Tarasque di Louis Dumont (1951) e, sia detto per inciso, anche nella pantasima di Colle San Magno (Frosinone), dove Carla Bianco, per il decennio intorno al 1980, ha condotto me e molti altri suoi allievi a scuola di “terreno”. La seconda osservazione è, dal mio punto di vista, per la serie di “incastri” che mi preme rilevare, ancora più decisiva. Vorrei, infatti, sostenere che la manifestazione di Ripratransone non si colleghi solo al lu bov di Offida, ma che, attraverso il gioco degli spruzzi di scintille, voglia sussumere anche i vlurd. Durante questa processione, infatti, il fumo, il vento, l’attenzione portata ora al proprio fascio di canne, che non bruci troppo o troppo poco, ora a quello di chi precede e la cui brace rischia di cadere sulla propria testa, fanno sì che il problema di chi porta lu vlurd non sia molto distante da quello di chi sfida il cavallo di fuoco. Pari, in ogni caso, sono gli accorgimenti per difendersi (cappello o fazzoletto per coprire i capelli, una sciarpa che impedisca alle scintille di scivolare nel collo, fazzoletti sulla bocca per proteggersi dal fumo) e pari il desiderio di marcatura: un piccolo segno del fuoco è in definitiva più ricercato che evitato.

 

E’ evidente che il cammino per cominciare a montare i pezzi di questa costruzione è solo all’inizio. Prima di terminare questo breve intervento, devono essere svolte almeno tre osservazioni.

In primo luogo i segmenti festivi proposti sopra dovranno essere ricollocati nel loro contesto più ampio. A Offida due elementi devono in particolare essere considerati: i veglioni e le congreghe. Almeno in passato, quando avevano come scenario il teatro comunale, una preziosa costruzione ottocentesca, i veglioni sembra che avessero la funzione di determinare gli scambi matrimoniali. Ogni famiglia si sforzava di affittare un palco, che era occupato da tutti i membri della famiglia estesa, mentre i più giovani ballavano nella platea, sotto il controllo genitoriale.[10] Le congreghe riuniscono invece piccoli gruppi di offidani, secondo un’articolazione sociale che resta da individuare. E’ certo, tuttavia, che almeno nelle denominazioni, alcune di esse si costituiscono come gruppi in opposizione (vedi il Ciorpento [serpente], la Mangusta, la Ciuetta [civetta], il Riccio, il Gancio, la Gabbia).

Per quanto riguarda Ripatransone, oltre alla necessità di un approfondimento del ciclo dell’anno, resta tutto da approfondire il ruolo della Congrega di San Giovanni, cui è attribuito storicamente il merito dell’introduzione del culto della Madonna cui il Cavallo è dedicato.

2. Come accennato, una serie di piccoli elementi invita a confrontare lu bove di Offida con i Ceri di Gubbio. Faccio osservare: l’ebbrezza del vino, il fazzoletto rosso intorno al collo, il bianco del costume, così vicino a quello dei Capitani dei Ceri, il carattere antiorario dei giri che il bove compie su se stesso o su piccole circonferenze. A livello prossemico, la serie di tappe osservate durante la corsa del bove, ricordano bene alcuni momenti della mostra a Gubbio. Evidentemente si tratta solo d’indizi che una ricerca approfondita deve verificare ed interrogare.

3. Un altro problema appare interessante. Anche se “vitali”, le manifestazioni del lu bove e de lu cavalla, risentono comunque oggi di un affollamento forse eccessivo e delle trasformazioni sociali che impongono continue modifiche, sicché la provocazione rivolta in entrambi i casi verso il femminile è smorzata, rispetto, ad esempio, alla descrizione data da Mannocchi, per Ripatransone. Ma il comportamento descritto da quest’autore è perfettamente adeguato a quello che i bambini d’Offida, adottano nella loro manifestazione de Lu bovit, che, da qualche anno si celebra nella mattinata del venerdì grasso da parte degli scolari delle elementari e delle medie (Travaglini, 1997, pp. 62-63; Carosi, 1999, pp. 52-53). Come hanno elaborato i giovani scolari il loro modello di comportamento?

Concludo con un’osservazione più generale. Anche se appena delineato, il percorso tracciato lascia prefigurare già una possibile polemica analoga a quella posta dalla lettura della festa dei Ceri. Infatti, anche a Offida-Ripatransone, proprio come a Gubbio, dove documentatamente l’attuale organizzazione della festa è una costruzione recente, elaborata “a tavolino” da parte di un gruppo di “intellettuali” del Maggio Eugubino,[11] si configura uno schema organizzativo che si spiega al meglio con i ritmi della lunga durata. Come rispondere?

Ci si potrà rallegrare per l’efficacia di un metodo, forse sbrigativamente accantonato come velleitario, o si potrà liquidare il problema considerandolo come il frutto arbitrario delle costruzioni strutturaliste. Oppure, cominciando a rinnovare i riferimenti teorici e rompendo la consunta distinzione tra primitivi e civilizzati, società semplici e società complesse, riconoscere che il pensiero mitico è all’opera anche tra noi, membri della società globale.

 


Riferimenti bibliografici

 

ALLEVI Guglielmo

1892a "I falò della sera della Venuta", Nuova Rivista Misena, V, 1, 1892: pp.5-8.

1892b "Costumi popolari marchigiani. Le danze di Pasqua in Offida", Nuova Rivista Misena, V, 4: 56-59).

1893 "Costumi popolari marchigiani. La festa e l'armata di S. Croce in Offida", Nuova Rivista Misena, VI, 12: pp. 202-207. [] [311]

1896 "La festa della Croce in Offida", Vita popolare marchigiana, I, 6: pp 83-87.

1901 A zonzo per Offida, Premiata Tip. Economica: Ascoli Piceno. Ristampe: Ascoli Piceno: Casa ed. G. Cesari, 1926 e in Guglielmo Allevi, Centenario della scomparsa 1890-1996, Regione Marche e altri enti, s.l., 1997.

1901a [MDN1] "I Bagordi. Costumanza Offidana" in 1901, pp. 159-163).

1901b "Il giuoco dell'anello d'argento in Offida" in 1901, pp. 167-169[MDN2] .

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*Testo pubblicato in Culture e mutamento sociale. Per Carla Bianco: studi e testimonianze, a cura di M. Luisa Meoni, Editrice Le Balze, Montepulciano - Dipartimento di Studi storico-sociali e filosofici, Università degli studi di Siena,  2002: pp. 211-221.

[1] Il riferimento è a Bianco-Del Ninno 1981.

[2] Offida vanta nella letteratura folklorica molti riferimenti grazie a Guglielmo Allevi, uno studioso locale che, tra l’arbitrio delle ricostruzioni evoluzionistiche e lo sfoggio erudito-letterario, ci fornisce comunque qualche utile dato etnografico: Allevi 1892 a, 1892 b, 1893, 1896. 1901.

[3] Il principio, in verità, regge anche i quattro volumi di Mitologica ed è esemplificato al meglio in La via delle maschere (Lévi-Strauss , 1979/2).

[4] Dopo l’uccisione, al canto di “Addio Ninetta, addio”, il bove è trasportato a spalla lungo un itinerario che osserveranno anche i vlurd e, la settimana di Pasqua, la processione del Cristo Morto, per essere lasciato infine nel luogo dove verrà conservato fino alla successiva manifestazione (sede della Pro-loco, in via Roma).

[5] Vanno in tale direzione due note del 1819, riportate nel testo curato da Cardarelli (1987, pp. 163-164), inviate dalla Direzione di Polizia della Delegazione Apostolica di Ascoli Piceno al Gonfaloniere di Offida per autorizzare la “caccia del bue”: “osservati i soliti regolamenti di sanità o di polizia, cioè che debba essere il bue mattato entro lo spazio di due ore finita la caccia e che la brigata dei carabinieri sorvegli sulla pubblica piazza perché non accada inconveniente alcuno”. Resisto, in parte, a tale ipotesi. Alcuni segmenti della manifestazione lasciano presumere, infatti, una maggiore profondità storica: 1. il particolare delle corna e della coda vere (vedi il valore della testa e della coda del cavallo in India e a Roma, nell’analisi di “Il Cavallo d’ottobre” di Dumézil [1975: trad. it. p. 153-170]); 2. la finzione rituale per cui una parte degli offidani si incarica di ritardare per quanto possibile il momento dell’uccisione; 3. i movimenti rotatori del bove, sia sul proprio asse, sia su una circonferenza molto stretta, sempre in senso antiorario, secondo la stessa modalità dei Ceri di Gubbio.

[6] Dei velurde abbiamo anche una descrizione data da Angelini a Pitrè: “Un costume tutto speciale del mio paese l’ultima sera di carnevale sono: li velurde (da bagordi?). Ecco in poche parole cosa sono: Tutti gli uomini, vestono un camiciotto (guazzarò) che i nostri contadini portano nei lavori campestri, mettono in testa un cappello di paglia, prendono una boraccia di vino e sull’imbrunire mezzo brilli accendono lu velurde. Questo è un’enorme torcia a vento fatta di paglia e di canne, lunga 4 o 5 m., della circonferenza di m. 0,30: l’accendono ad un capo, se la caricano sulle spalle e così percorrono a gruppi le vie e le piazze urlando e bevendo, mentre le donne sotto i portici di piazza se la spassano coi moccoletti. Lo spettacolo di quest’orgia notturna così stranamente illuminata è bello” (1891, p. 493). Per quanto mi risulta, pare che nessuno conservi memoria dei “moccoletti” delle donne. Un riferimento ai moccoli sotto i portici è comunque presente nella descrizione di Allevi.

[7] Il termine è definito da Allevi nella pagina precedente: “Lungo le strade, intanto, per le piazze, nei viottoli, ovunque son là, che aspettano, i severi ministri dell’orgia del fuoco, ritti, taciturni, addossati alle case, alti così da sorpassare i primi piani col capo: i ministri del fuoco, pronti a gittare il loro alito di fumo e di fiamme sulla città sgomenta… vo dire, fasci di canne, riempiti di paglia, anima vigliacca in corpo che si sfascia, conosciuti dal nostro popolo sotto il poco ben promettente nome di “bagordi””.

[8]A questo dato fa riferimento anche Mannocchi (1907, p. 20) che però non cita la fonte.

[9] Si tratta in realtà della statua della Madonna di Loreto, a cui rimanda l’iconografia (Madonna in trono con bambino in braccio, sopra il tetto della casa di Nazareth, che i confratelli di S. Giovanni, intorno al 1620, portarono da Loreto (Veccia, 1882, p. 12): “I Ripani, senza più chiamarla Madonna di Loreto, la intitolarono dal nome della confraternita istessa, cui partiene e la dissero Madonna di S. Giovanni (idem, 14)”. Una ricercata considerazione del perché la festa si celebri nell’ottava di Pasqua è in Lunerti, 1932, pp. 68-69).

[10] Oggi questi veglioni, che avvengono nei locali angusti del locale cinema, sembrano aver perso oltre al loro fascino, anche la loro funzione.

[11] Tuttavia sedimentata attraverso mille discussioni ed assemblee di famiglia, di zona, di quartiere, di muta.