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Per Lévi-Strauss. Le ideologie passano, i metodi restano*

Alberto M. Cirese

Il testo che segue è stato presentato quale relazione conclusiva del convegno: "Lévi Strauss: letture e commenti" (Facoltà di Lettere dell'Università di Genova, 21 e 22 gennaio 2010); per l’impossibilità dell’autore di essere presente, esso è stato letto da Luisa Faldini.


Centouno anni è vissuto Claude Lévi-Strauss, io ne ho compiuti ottantotto, e ad oggi sono cinquantott’anni che mi confronto col suo forte pensiero. L’ho letto, l’ho studiato, l’ho tradotto, gli ho dedicato saggi e corsi universitari. Me ne sono occupato facendone non critica esterna (discorsi “su” o “intorno a”) ma interna, cioè mettendone personalmente alla prova metodi e tecniche.

Di persona l’ho incontrato solo una volta. Fu a Parigi, nel marzo del 1987 quando, lui per la Francia ed io per l’Italia, fummo chiamati a portare la nostra testimonianza alle giornate di studio dedicate al decennale di André Leroi-Gourhan. Ma il primo incontro con le sue pagine e la mia prima lettera a lui risalgono agli inizi o quasi dei miei studi: nel 1952 lessi la sua Introduction à l’oeuvre de Marcel Mauss, e nel 1953, mentre ero a Parigi al Musée de l’Homme con una borsa francese, il 13 luglio gli scrissi per dirgli delle mie ricerche sul cordoglio rituale degli indigeni australiani e per chiedergli di vederlo. L’incontro non ci fu, perché lui partiva per le vacanze estive ed io, estinta la borsa, dovetti rientrare in Italia. Ma intanto avevo scoperto in libreria e comperato Les Structures élémentaires de la parenté , ed il fascicolo dei Cahiers internationaux de sociologie che conteneva il suo scritto su «La notion d'archaïsme en ethnologie».

Dell’importanza di questo scritto per il dibattito su storia e antropologia allora in corso detti subito notizia, nel settembre del 1953, sul primo numero della rivista La Lapa, cui mio padre Eugenio aveva dato vita. Sempre su La Lapa l’anno seguente lo tradussi. Fu la prima traduzione in italiano di uno scritto di Lévi-Stauss, e per sei anni ancora restò l’unica (poi comparve Tristi tropici da Einaudi).

Nel 1954 vide pure la luce il mio primo scritto parentologico, che aveva come base le pagine di Lévi-Strauss sui sistemi classici australiani. Le Structures élémentaires de la parenté  mi avevano acceso una passione per lo studio dei sistemi di parentela così vivo da durarmi per tutta la vita. Nel 1969 ne curai l’edizione e la traduzione italiana, insieme a mia moglie Liliana. Fui, e resto, molto contento dell’esito dell’operazione, che aveva posto notevoli e interessanti problemi di terminologia e mi aveva portato a riflettere su quanto fosse scorretto usare il nostro linguaggio parentale come metalinguaggio per parlare dei linguaggi parentali altrui. Dunque è qui l’origine, per me, anche del lungo lavoro di costruzione, che mi ha impegnato dal 1978 al 2004, di un metalinguaggio parentale e dei programmi informatici basati su di esso.

Ma la portata e l’incidenza delle Structures vanno molto al di là di quanto ho accennato. C’è anzitutto l’idea che l’instaurarsi della regola di esogamia, di cui il divieto dell’incesto è per Lévi- Strauss soltanto un caso particolare, segna il passaggio dalla natura alla cultura.  È un’idea forte, di quelle prodotte dall’antropologia quando mirava alto (Tylor, Morgan o Frazer, per intenderci), ed è un’idea che io ritengo fondata, a condizione che le si aggiunga l’altra (non so se soltanto mia) che l’incesto è culturalmente scomparso non per un suo universale rigetto culturale (religioso, etico ecc.) ma perché le popolazioni che lo praticavano si sono estinte: insomma perché era una scelta culturale inadattiva, in quanto non consentiva che, genealogicamente, la discendenza si disponesse secondo una struttura ad albero, condizione viceversa necessaria per quella segmentazione dei gruppi in metà, sezioni e sottosezioni che ha consentito la agevole divisione di compiti e lavori, ed in sostanza le possibilità stesse di sopravvivenza.

Il pensiero lévistraussiano stimola a sviluppi, approfondimenti, continuazioni: anche in direzione critica o addirittura in dissenso più o meno parziale. Per quest’ultimo aspetto penso alla netta distinzione che a me è parso di dover fare tra analisi strutturali da un lato e strutturalismo dall’altro: le prime intese come metodo di ricerca complementare rispetto ad altri, e cioè tale che nell’oggetto vede ‘cose’ che altri metodi non vedono, ma consapevole anche che altri metodi vedono nell’oggetto ‘cose’ che le analisi strutturali non sono in grado di cogliere. Ed invece il secondo, lo strutturalismo, non è un metodo ma una visione del mondo che ideologizza la pratica e i risultati di analisi strutturali più o meno rigorose. Il metodo strutturale (che resta) non ha alcun bisogno dell’ideologia strutturalista (che è passata).

Il Lévi-Strauss che per me ha contato e conta è quello che ha avuto l’intelligenza e la capacità di trasferire nel campo etno-antropologico le grandi conquiste scientifiche della linguistica di Saussure e del Circolo di Praga, ed innanzi tutto l’idea che alle differenze che si colgono alla superficie dei fenomeni può spesso soggiacere una unità di fondo. E, al di là di certe manchevolezze esecutive, Lévi-Strauss ha anche il merito di aver visto nella logica formale - del cui ausilio si era già avvalso nelle Strutture - lo strumento che in molti casi poteva consentire il riconoscimento delle identità soggiacenti alle differenze. Esemplare, come progetto, è l’operazione sulle funzioni narrative che Propp aveva identificato nelle fiabe di tradizione orale: 31 funzioni, dal Danneggiamento, che dà l’avvio all’azione, alle Nozze, che la concludono. Propp aveva in qualche modo avvertito che c’era qualcosa in comune tra le funzioni che chiamò rispettivamente Partenza e Ritorno (dell’Eroe), ma non s’era minimamente posto il problema teorico generale della trasformabilità, eventuale, di ciascuna funzione in altre. Lévi-Strauss, invece, pone subito la questione e ne fa il centro della sua attenzione. In verità, era quanto ci si doveva attendere da chi stava trasferendo all’antropologia i criteri della linguistica saussuriana; e tuttavia continuo a restare ammirato, e grato, per la prontezza del suo acume. Tanto più poi per il fatto che Lévi- Strauss indica immediatamente gli strumenti della logica formale da impiegare: l’algebra di Boole e i gruppi di trasformazione di Klein. Siamo qui ad un punto svolta nella fiabistica e più in generale nella narratologia: di qui tanta semiotica o semiologia, da Greimas a Bremond o Todorov. È il passaggio dal formalismo allo strutturalismo (qui inteso come metodo e non come ideologia). Il programma è dunque eccellente: degno di un maestro. L’esecuzione però è inadeguata. Questo è appunto quanto mi ha mostrato quel lavoro di critica interna di cui ho detto all’inizio (qui aggiungo che la prima regola di quel tipo d’indagine suona così: a testo laico, laica lettura). Io che – a causa di una infanzia carente di giochi combinatori – invece che dallo stregone sono patologicamente andato a scuola dai logici (e principale maestro mi fu Ettore Casari), ho provato a rieseguire le operazioni di trasformazione proposte da Lévi-Strauss per le funzioni proppiane, ed ho trovato che nessuna torna. Ad esempio Lévi-Strauss dice che l’operatore della trasformazione tra partenza e ritorno sarebbe la negazione. Ossia il ritorno sarebbe la non-partenza, e la partenza sarebbe il non-ritorno! Il fatto è che per la coppia partenza/ritorno l’algebra di Boole (che Lévi-Strauss applica altrove in modo eccellente) non basta: occorre una logica modale che introduca l’operatore temporale e poi. Così la partenza si rappresenta con l’espressione esserci e poi non-esserci  (che ovviamente è anche la morte e simili) ed il ritorno si rappresenta con l’espressione esserci e poi non-esserci e poi esserci  (che ovviamente è anche la resurrezione e simili).

Resta comunque per me il fatto che l’impegno lévistraussiano a ricercare le identità profonde che soggiacciono alle differenze di superficie è una conquista scientifica fondamentale; non so qual conto ne facciano gli indirizzi antropologici oggi vigenti, e può darsi perciò che quella conquista non sia andata persa. Me ne rallegrerei, convinto come sono che il sapere effettivo cresca nella cumulatività, anche quando si operano rivoluzioni scientifiche (posto che siano davvero tali, e non semplicemente fughe o riflussi facilitanti). Avanzo comunque, pur augurandomi che sia superflua, una vibrata sollecitazione a conoscere e ad assumere in proprio questo elemento fondamentale del pensiero e dell’opera di Lévi-Strauss.

La cui voce risuona ancora più alta quando – contro il relativismo selvaggio e il suo inconsapevole ma perciò stesso più feroce razzismo psicologico – ribadisce l’idea centrale di tutta l’antropologia dei grandi: l’identità della mente umana, e dunque della sua logica, quali che siano o siano stati la razza, l’etnia, la lingua, l’età o il sesso. Non è forse un caso che il titolo e l’oggetto del mio ultimo corso di lezioni, anno accademico 1990/91, siano stati “Contro il pensiero ‘altro’. Dal prelogismo di Lévy-Bruhl al pensiero selvaggio di Lévi-Strauss” (ma voglio ricordare che la prima delle tante volte che tenni un corso su Lévi-Strauss fu nel 1964/65, a Cagliari: “Il totemismo nella interpretazione di Claude Lévi-Strauss”, si intitolava, ed era un corso di Storia delle religioni, per la supplenza a Ernesto De Martino, in congedo per il gravissimo male che lo portò alla morte il 9 maggio 1965).

Identità della mente umana. Non si tratta, per me, di proclamazioni o di slogan, e insomma di atti di fede; si tratta invece di prove incontrovertibili ricavate da rigorose analisi (formali e strutturali) dei fatti. Così è per i miei programmi elettronici che gestiscono secondo la logica ‘occidentale’ il calendario maya e i sistemi di parentela che possono sembrare espressione di logiche ‘altre’: la simulazione informatica mi dichiara per sua autonoma capacità inferenziale che se il calcolatore calcola la parentela come i Crow, e i Crow calcolano la parentela come il calcolatore, allora i Crow non sono altri da noi, e noi non siamo altri dai Crow.

L’ho già detto altrove, ma voglio ripeterlo: a fronte di una antropologia angosciata dal rapporto con misteriosi altri da sé, ce ne è un’altra che riflette sul difficile rapporto con altri sé. Ora Altri sé è diventato il titolo di un libro, in corso di stampa, che come sottotitolo reca Per una antropologia delle invarianze. Una prospettiva, ed un modo di considerare l’alterità, che hanno certamente rapporto con l’inconscio come lo concepisce Lévi- Strauss, e che non ha assolutamente a che fare con quello di Freud. L’inconscio lévistraussiano è, per dirla molto sbrigativamente, come uno sterminato giacimento di tessere di mosaico: quasi come nella scatola di un puzzle, con la sostanziale differenza però, che nella scatola del puzzle i pezzi possono combinarsi tra loro in un solo ed unico modo a formare un solo ed unico disegno, mentre nell'inconscio di Lévi-Strauss le tessere possono combinarsi tra loro in innumerevoli modi (forse anche infiniti). Ogni etnia combinerà dunque le tessere secondo la sua vicenda ed avremo quindi tante concezioni diverse ma tutte basate sullo stesso patrimonio di base.

Uno specchio può andare in frantumi, ma ciascun frammento riflette tutta la luce del mondo come lo specchio intero. Cambierà dunque qualcosa, in ragione delle caratteristiche e della posizione dei singoli frammenti, ma resterà salda l'identità della mente umana. Il pensiero ‘selvaggio’ non è pensiero 'altro' (tesi relativista) ma è il nostro stesso pensiero applicato alle qualità secondarie delle cose e non alle primarie (cui si applica, invece, il pensiero 'logico'). Pensiero selvaggio e pensiero logico coesistono e convivono in tutte le società anche se può variare la prevalenza dell'uno o dell'altro.

Qualcuno di Lévi-Strauss ha letto solo Tristi tropici e qualche intervista, e crede che lui sia stato un relativista. È assolutamente falso, il pensiero selvaggio è a suo giudizio tanto dei ‘selvaggi’ quanto nostro.  Forse sarebbe bene, sarebbe fruttuoso tornare a prestare di nuovo scientifica attenzione all’opera di Claude Lévi-Strauss: agli studiosi si porta onore studiandoli, e studiando.

* Per queste note mi avvalgo del testo, più ampio, steso in occasione dei cento anni di Claude Lévi-Strauss e pubblicato sulla rivista Voci. Semestrale di scienze umane, a. V, gennaio-dicembre 2008, pp. 9-17, con il titolo «Mie memorie ridestate dai cento anni di Lévi-Strauss». Lo si può vedere in Rete, insieme ad altri materiali, nella raccolta I cento anni di Lévi-Strauss all’indirizzo http://amc-ls100.blogspot.com/.

 

Opere a cui si fa riferimento nel testo:

 Claude Lévi-Strauss

Les Structures élémentaires de la parenté, Paris, Presses universitaires de France, 1949 (tr.  it. Le strutture elementari della parentela. Edizione italiana a cura  di A.M. Cirese. Traduzione di A.M. Cirese e L. Serafini. Milano, Feltrinelli,  1969); Ristampe: 1972 (Sc/10 Manuali), 1984 (I campi del sapere), 2003 (Universale economica saggi)

«Introduction à l'œuvre de Marcel Mauss» in Marcel Mauss, Sociologie et antropologie. Paris, PUF, 1950: IX-LII (tr. it. di F. Zannino, «Introduzione all’opera di Marcel Mauss», in Teoria generale della magia e altri saggi , Torino, Einaudi 1965: XV-LIV)

Tristes Tropiques. Paris, Plon, 1955 (trad. it. di B. Garufi, Tristi tropici, Milano, Il Saggiatore, 1960)

«La notion d'archaïsme en ethnologie», Cahiers internationaux de sociologie, 12 : 3-25. Ripubblicato con adattamenti in Anthropologie structurale. Parigi, Plon, 1958 (trad. it. di P. Caruso, Antropologia strutturale, Milano: Il Saggiatore, 1966: 119-139)

«La structure et la forme. Réflexions sur un ouvrage de Vladimir Propp», Cahiers de l'institut de sciences économiques appliquées,  9, 1960 : 3-36 ; poi in Anthropologie structurale deux, Parigi: Plon 1973 (trad. it. 1978: 155-186) ; in trad. italiana il saggio è apparso per la prima volta in appendice a Morfologia della fiaba di Vladimir Propp (a cura di Gian Luigi Bravo, Torino: Einaudi 1966: 163-199), con il titolo «La struttura e la forma. Riflessioni su un’opera di Vladimir Ja. Propp»)

 

Alberto M. Cirese

L'organizzazione sociale e la parentela. In: E. De Martino, Introduzione allo studio dell'etnologia. Corso universitario a.a.  1953/54. Roma, Ed. Ateneo, 1954 : 175-203

«A scuola dai logici o a scuola dallo stregone? Proposta di un sistema di notazione logica e calcolo (NLC) delle relazioni di parentela»  L’Uomo, 2. (1978), n. 2 : 43-111

Io sono mio fratello. Proposte di analisi formale dei sistemi di parentela. Urbino, International center for cultural studies, 1988 (Quaderni di antropologia e  semiotica, 5. A cura di M. Del Ninno. Sotto gli auspici dell'Istituto di Sociologia  dell'Università e del Centro di Semiotica e Linguistica di Urbino), 31 p

ACAREP. Analisi componenziale automatica delle relazioni di parentela.  Versione AR. Roma, 1988 (19821). Programma su dischetto magnetico per calcolatore (sistema operativo MS-DOS e  compatibili)

GELM. Calcolo automatico delle relazioni di parentela Versione GELM04. Roma, 2002 (19881). Programma in Visual Basic (GELM04.VBP) (sistema operativo MS-Windows)